Enzo Jannacci, cantautore milanese, laureatosi in Medicina, scrupoloso cardiologo di giorno e accorato poeta di notte, dopo una lunga malattia, si è spento all’età di 77 anni. Cuore e voce di Milano, Jannacci se ne va in una giornata di pioggia, come se anche il cielo piangesse un uomo che ha reso grande la sua città in inconfondibili e indimenticabili note. Anima di Milano, Jannacci sarà sepolto nel Famedio, il posto in cui riposano tutti coloro che hanno reso grande Milano: lo ha spiegato il sindaco del capoluogo lombardo, Giuliano Pisapia.
Tra i pionieri del rock and roll italiano, insieme ad Adriano Celentano, Luigi Tenco, Little Tony e Giorgio Gaber, Jannacci era un’artista poliedrico, un vero fuoriclasse, innamorato dell’arte, capace di spaziare con estrema genialità dalla poesia alla realtà, dalla musica al teatro, dalla medicina al cabaret, dalla letteratura al cinema e alla televisione. Tra i pionieri del rock and roll italiano, insieme ad Adriano Celentano, Luigi Tenco, Little Tony e Giorgio Gaber, Jannacci era un’artista poliedrico, un vero fuoriclasse, innamorato dell’arte, capace Medico del cuore e dell’anima, tra i caposcuola del cabaret italiano, ha saputo sempre coniugare intelligenza e satira, estro creativo, gusto del paradosso e attenzione alle realtà più emarginate e sofferenti. Personalità eclettica, genuina, spesso surreale e visionaria, Jannacci era un vero fantasista. Ha registrato oltre trenta album, regalandoci testi che hanno fatto la storia della nostra musica italiana. Indimenticabili i suoi grandi successi con “Vengo anch’io, no tu no”, “Quelli che”, “Ho visto un re”, “Ci vuole orecchio”, “E la vita, la vita” scritta con Cochi e Renato, “Vincenzina e la fabbrica”, “Andava a Rogaredo” e tantissime altre canzoni, che rappresentano importanti pagine della discografia italiana.
Celebri le sue collaborazioni con altri grandi artisti come Gaber, Celentano, Dario Fo, Stan Getz, Gerry Mulligan, Chet Baker, Franco Cerri, Paolo Rossi, Enrico Intra. Tante le colonne sonore che scrisse per film italiani, come “Romanzo popolare”di Mario Monicelli e “Pasqualino Settebellezze” di Lina Wertmuller, mentre l’esordio sul grande schermo era avvenuto nel lontano 1964 con “La vita agra” di Carlo Lizzani. Jannacci, il poeta in scarpe da tennis, è stato tra i maggiori protagonisti della scena musicale italiana del dopoguerra, riuscendo a rompere vecchi e stereotipati motivi, con una forza dirompente, capace di svecchiare la canzone nazionalpopolare con un linguaggio nuovo, surreale, irriverente, attingendo a piene mani dalla periferia, dai poveri, dagli ultimi.
La sua amata Milano è stata sempre al centro delle sue note, ispirandolo e incoraggiandolo nel tracciare nuove strade, regalandogli gioie calcistiche e il mito di Rivera, il Gianni, unico suo dio, idolo e gioia suprema, il Prodigio. Grande tifoso milanista, scrisse l’inno della squadra rossonera nel 1984. La Milano del dopoguerra lo aveva segnato e avvicinato alla strada, dove porgeva l’orecchio al grido sofferente e dava voce a chi voce più non aveva. Lui, Jannacci, il cantore degli ultimi, aveva una filosofia tutta sua, quelle filosofie che impari tra i vicoli, sbucciandoti le ginocchia e inciampando, trovando il sorriso dopo la caduta, perché, in fondo, «sempre allegri bisogna stare che il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam» (“Ho visto un re”).
E, allora, bisogna sorridere, sì, «e ridere sempre così giocondo, ridere delle follie del mondo, e vivere finché c’è gioventù, perché la vita è bella e la voglio vivere senza tu» (“Vivere”). Il suo viaggio terreno è stato un po’ stralunato e un po’ folle: lui, maestro matto e geniale, di strada ne ha fatta. Amico degli umili, pensatore critico e sagace, musicista dei sentimenti, oggi ci lascia in eredità la sua musica e la sua umanità, inconfondibili doni di un’artista dal gran cuore.
di Giuseppina Amalia Spampanato