non c'è libertà senza passione!

Una delle convinzioni (o pregiudizi?) che maggiormente investono la mia professione è quella relativa alla maggiore competenza nella comprensione e nella gestione delle problematiche che ci investono grazie agli studi fatti. La frase che spesso mi sento rivolgere è: ”sei psicologa? Allora devo fare attenzione a cosa faccio o dico che mi interpreti; allora hai migliori strumenti per gestire i problemi”.

Roma, Villa Borghese

Io mi guardo intorno, nel mio ambito professionale e non vedo individui che hanno raggiunto un migliore benessere ed una migliore qualità della vita, non vedo persone sicure di sé, realizzate e soddisfatte della loro vita. Vedo invece individui frequentemente con grandi insicurezze, con paure, con difficoltà nelle relazioni, con sintomatologia psicosomatiche di varia natura. E mi chiedo a cosa ci sia servito studiare tanto, cosa ci dà il diritto di ritenerci in grado di aiutare gli altri a risolvere e superare le loro difficoltà se noi per primi siamo impantanati nelle nostre.

A questo punto ritengo sia necessario fare un passo indietro e chiedersi, anzi chiedermi cosa mi abbia spinto a voler studiare proprio psicologia. Come ci sono arrivata? Non ero mai venuta a contatto con uno psicologo nella mia vita, come mi è venuto in mente? La risposta più semplice e scontata è quella forse più vera, speravo di acquisire gli strumenti per essere felice, per amarmi e sentirmi amata, per capire perché venendo da una bella famiglia felice io mi sentissi tanto sola e poco accettata. Osservando i miei amici/colleghi mi sembra che il loro quadro sia simile al mio. 

Mio nonno diceva sempre che solo chi soffre di mal di schiena sa fare bene il massaggio. Io credo che questo sia tanto più vero per la sofferenza psicologica. Quando mi arriva un paziente con delle fobie, io capisco fino in fondo cosa intende quando afferma che non riesce a fare una determinata cosa, sia anche restare in fila alla posta. E guardo con orgoglio ogni passo avanti che fa nel superare le sue paure. Quando una paziente mi dice che si vede brutta, capisco di cosa sta parlando e so che non serve farle notare la sua bellezza, ma farle capire che la sua sofferenza non viene dalla cellulite.

A me piace pensare che ci sia una difficoltà fondamentale tra il sentirsi una psicologa e il sentire di svolgere il lavoro da psicologa. Nel primo caso ci si sente in diritto di dare interpretazioni gratuite a tutte le persone che ci circondano. In tutte le circostanze crediamo di avere la risposta giusta, abbiamo un giudizio che nasce dalle nostre “competenze” e “conoscenze” che ci consente di ritenere di capire cosa stia accadendo. A volte la nostra interpretazione è momento di riflessione per l’altro, a volte non è condivisa; in quest’ultimo caso la nostra difficoltà all’autocritica ci porta a restare fermi nelle nostre posizioni e a ritenere che l’altro non abbia la capacità, la forza di accettare la “verità”.

Nel secondo caso si lavora assieme al paziente, si impara da lui e lo si accompagna per mano a scoprire i talenti meravigliosi che ha e che lo porteranno a superare gli ostacoli.

Qual è la difficoltà che mi si pone di fronte quando io ho problemi? La difficoltà principale è trovare un equilibrio tra il bisogno di essere sostenuta e il bisogno di accudire; la voglia dipiangere sulla spalla di qualcuno e la necessità di mostrarsi come un cavaliere senza macchia e senza paura. Molte delle mie amicizie nascono per il mio bisogno di accudimento, di sentirmi necessaria. Ho molte persone che di fatto sono disposte a starmi accanto, ma sono io incapace di chiedere aiuto, di mostrare le fragilità e le incertezze che sovrastano la mia vita in determinati momenti.

Io continuo a volte a sentirmi incompetente e le persone a me vicine mi stimano per le mie capacità organizzative e per la forza che mostro in momenti di grande tragicità come quello che sto attraversando ora, senza che io riesca a comunicare quanta fatica mi costa questa efficienza.

Cerco di essere una buona madre e frequentemente mi scontro con errori talmente grossolani che anche leggendo un libro da banco o con il solo buon senso dovrei evitare. Eppure consapevolmente perpetuo nell’errore arrivando alla conclusione che forse l’insegnamento più importante che posso dare alle mie figlie e che si può essere amabili e amati anche se si è fallaci, anche se non si è perfetti. Io amo profondamente le mie bimbe, ma a volte non riesco a dare loro quello di cui hanno bisogno.  Ho letto sui libri, sui giornali, ovunque che è importante nella prima infanzia giocare con i propri figli, ma io mi annoio con una tale velocità che tendo dopo poco a fuggire con una scusa. Non voglio essere una madre perfetta, ma la migliore madre possibile per me. Cerco già di essere una figlia perfetta, una psicologa perfetta, un’amica perfetta, voglio essere solo me stessa con le mie figlie con tutti i miei limiti. Insegnerò loro che si può sbagliare e che si può recuperare ai propri errori, insegnerò loro che sono amabili anche quando avrei voglia di fuggire, che possono essere libere di essere imperfette, anche insopportabili a volte. Che a volte accadono cose che ci fanno soffrire, che ci fanno paura ma che se si è capaci di chiedere aiuto si può andare avanti.

Ma soprattutto vorrei che non si sentissero mai sole.

Non so se sono una brava psicologa, non sono io che devo dirlo, so che stimo profondamente i miei pazienti e che non voglio essere una di quelle psicoterapeute che hanno sempre la risposta, che sono sempre sicure, che non sanno ascoltare, ma solo sentire, che sanno sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato, che sanno sempre perché accade una determinata cosa e da dove nasce un sentimento o una paura.

Voglio invece continuare nel percorso delle domande e non delle risposte, voglio sbagliare, inciampare e rialzarmi, voglio guardare le persone scoprendole senza interpretarle con un manuale preconfezionato. Voglio fare il mio lavoro, non essere il mio lavoro. Solo così sipuò crescere umanamente e professionalmente.

Giorgia Sciamplicotti