Chissà cosa penserebbe oggi Altiero Spinelli di questa Europa, lui che fu l’ideatore, nel lontano 1984, di un progetto costituzionale per gli Stati Uniti d’Europa che venne approvato dal Parlamento Europeo, ma bocciato successivamente dal Consiglio Europeo. Insomma, la volontà popolare disse di “sì”, i singoli stati azzerarono il tutto con un “no” senza appello. Forse, come il grande ciclista Gino Bartali, ripeterebbe scuotendo la testa: “L’è tutto da rifare”. A più non posso, Spinelli, affermerebbe che l’economia è importante, ma senza il motore della politica non si va da nessuna parte. Si va solo a sbattere contro i facili populismi anti Europa e, soprattutto, contro i veti egoistici di chi ha, appunto, l’economia più forte, destinata a rimanere tale nei “saecula saeculorum”, secondo un’illusione falsa e fuorviante. Nella globalizzazione dell’economia, sempre più esasperata e senza regole, nessun paese d’Europa può illudersi di poter competere da solo, utilizzando strumentalmente il “cappello” dell’Unione per trarne vantaggi.
Nel breve periodo il giochetto potrà pure funzionare, ma i cambi epocali – tecnologici, di emancipazione sociale e culturale – che ormai avvengono ogni decennio, dimostreranno che solo una strategia comune europea potrà risultare vincente. Senza l’integrazione della politica, che è governo della “polis”, è come affidare agli usurai la gestione delle banche, senza alcuna garanzia di controllo. Ma un esempio in tal senso ci viene proprio dalla gestione non sovranazionale e “politica” delle banche europee che, in alcune situazioni e per alcuni paesi, si trasformano in vessatori feroci per i loro clienti. E la scusa che viene puntualmente addotta, a giustificazione di comportamenti abnormi che bloccano ogni possibilità non solo di sviluppo e di crescita, sono le regole di Bruxelles o di Maastricht. Un alibi in certi casi. Una verità vera in altri. Per rimuovere queste contraddizioni c’è solo la medicina della vera integrazione dei popoli e, quindi, delle economie dell’Unione. Bisogna allora osare di più nelle politiche d’integrazione. E proprio la Germania dovrebbe comprendere più di altre nazioni la necessità e le opportunità che vengono dall’integrazione. Solo nel 1990 riunì l’Est con l’Ovest nella Repubblica Federale di Germania, riuscendo in pochissimo tempo, non senza problemi ed incomprensioni tra la gente, ad abbassare significativamente gli squilibri abissali tra le due Germanie, posizionandosi come la quarta economia mondiale.
La preoccupazione di Matteo Renzi nel suo giro europeo di questi giorni è accreditare l’Italia, e lui medesimo, come realtà affidabile, soprattutto per avere “benzina” per i progetti di sviluppo e di occupazione. L’Europa guarda con attenzione e sospetto all’Italia e, al di là di espressioni di compiacimento per le “riforme”, sta aspettando i risultati concreti che esse porteranno all’Italia. Il giudizio è rimandato a quando, appunto, i conti saranno chiari. Per il momento pacche sulle spalle d’incoraggiamento, ma niente altro. Certo, non aiutano il presidente del Consiglio le posizione oltranziste ed anacronistiche di Peppe Grillo, che chiede “il ritorno alla lira” e quelle di Matteo Salvini, della Lega, che parla di “liberazione dall’euro”.
Una grande occasione si presenta all’Italia, sia con la prossima presidenza del Consiglio dell’Unione europea, sia per le imminenti elezioni per gli scranni di Strasburgo. L’Italia potrà scegliere, nei sei mesi di presidenza, o di svolgere il ruolo di “bella statuina” tutto finalizzato a suscitare consenso d’immagine in Italia o, viceversa, di coscienza critica, provando ad emulare i padri fondatori dell’Europa, nell’ottica ideale di aumentare la coesione tra i ventotto paesi che la costituiscono, ricordandosi che nel 1952 fu tra le prime a comprendere l’importanza dell’Unità Europea.
C’è poi l’aspetto non secondario delle candidature alle prossime elezioni al Parlamento europeo. Non abbiamo brillato molto, come italiani, nel mandare i nostri rappresentanti a Bruxelles ed a Strasburgo. L’Europa era il ripiego – o contentino – per disegni non andati a buon fine nel nostro Paese. Da Renato Brunetta a Pier Luigi Bersani, da Massimo D’Alema ad Antonio Di Pietro, a Umberto Bossi, a Fausto Bertinotti, ad altri che hanno adoperato il Parlamento europeo come intervallo tra incarichi nazionali più o meno desiderati. Anche il mondo del giornalismo non disdegna, quando occorre, una rapida corsa con biglietto di ritorno già prenotato da Bruxelles e da Strasburgo. E’ il caso del giornalista Michele Santoro che dopo l’epurazione dalla Rai, per effetto dell’editto bulgaro di Silvio Berlusconi, prende il volo per lo scranno europeo con 730mila preferenze. Appena un anno e qualche mese dopo torna a casa per una chiamata televisiva irrinunciabile. E l’impegno europeo? Arrivederci e grazie! La stessa cosa fa Lilli Gruber, che resiste però quasi quattro anni, prima di dimettersi per correre a condurre il programma “Otto e mezzo”. Insomma, l’Europa è una grande opportunità, non una sinecura. C’è bisogno allora di mandare a Strasburgo gente che crede veramente al processo d’integrazione europeo. Speriamo che i partiti lo capiscano.
di Elia Fiorillo