Giancarlo Siani aveva appena ventisei anni e tutta una vita da vivere.
Trentacinque anni, quasi una vita, sono passati da quel triste giorno. Quando un giovane “giornalista-pubblicista”, un “precario” per capirci, venne ucciso senza alcuna pietà per la sua giovane età. Aveva appena ventisei anni e tutta una vita da vivere. Non credo si possa lontanamente immaginare il dolore dei familiari e della sua bionda fidanzata, Daniela, per quell’omicidio a prima vista senza senso.
“Giancarlo Siani ha scritto l’ultimo articolo con il sangue”, affermò ai funerali il vescovo Antonio Ambrosiano, vicario generale di Napoli. “Intendeva il giornalismo come testimonianza civile e morale”. “Ma gli assassini– secondo il prelato – hanno sbagliato perché oggi per noi tutti, anziani e giovani, vogliamo dimostrare di essere pronti a raccogliere l’eredità del giovane cronista nel tentativo di riaffermare il primato della fiducia della vita sulla barbarie della morte.” E così è stato.
L’allora ministro dell’interno Scalfaro non ebbe dubbi nell’asserire che il delitto era avvenuto in zona di camorra. E che l’esecuzione era di chiaro stampo camorristico, considerando il tipo d’impegno professionale svolto dal giovane giornalista. Eppure, per tanti anni, ben dodici, il P.M. titolare dell’inchiesta, Aldo Vessia, non ha mai creduto all’uccisione di Siani ad opera della camorra. Per lui c’entravano storie di donne e sesso che avevano portato alla morte Giancarlo. Niente giornalismo, niente inchieste, niente camorra. Certo, ci furono dei depistaggi ma quell’indagare a senso unico, nella certezza che non ci potessero essere altre piste fuori di quella, preoccupa ancora oggi. All’oggettività dell’azione giudiziaria, al distacco totale che i magistrati devono avere nel loro difficilissimo lavoro, a volte subentra la voglia di apparire che diventa fuorviante e pericolosa nella ricerca della “verità” giudiziaria.
Io ero amico di Siani. Ricordo che quando l’allora segretario regionale del sindacato degli edili della Cisl, Camillo Izzo, mi chiese d’indicargli un giornalista per affidargli il ruolo di addetto stampa della categoria pensai a lui, a Giancarlo, e a una brava giornalista, oggi volto noto della Rai. Ma poi, forse sbagliando, ritenni più idoneo un uomo per quella categoria.
Troppi anni, dodici, e due pentiti ci sono voluti per avere una verità giudiziaria che fa acqua. Perché tanti mesi dalla condanna a morte all’esecuzione? Perché gli scritti di Giancarlo sull’inchiesta che stava svolgendo sui fondi del terremoto dell’80 non si sono trovati?
Perché, soprattutto, si è voluto insistere a senso unico su Giorgio Rubolino, presunto killer di Siani, tenendolo in carcere mesi, quando anche il più sprovveduto, conoscendolo, lo avrebbe certo considerato un millantatore, un fanfarone dalla viva e fertile intelligenza, ma non uno spietato e sanguinario giustiziere?
Risi nel suo film ha provato a dare una spiegazione all’omicidio. Speriamo che qualche cronista, magari abusivo, della tempra e serenità di Giancarlo possa fare meglio: riuscire a dare una risposta ai tanti interrogativi che restano ancora.
Vederlo sullo schermo così ben rappresentato da Libero De Rienzo, eroe suo malgrado, mi scatena stati d’animo diversi. La cosa però che più mi colpisce è la solitudine con cui ha portato avanti il suo lavoro. Non perché fosse un solitario, anzi. Perché la struttura sociale in certe realtà del Mezzogiorno è talmente sfilacciata, talmente disgregata che è difficile, direi quasi impossibile, anche su temi nobili come la lotta alla camorra, fare squadra. Ci si perde in individualismi, in velleitarismi ed a volte in protagonismi fuorvianti. Eppure Giancarlo era inserito in un giornale importante come “Il Mattino” di Napoli, nel sindacato, collaborava con la Fondazione Colasanto e con l’Osservatorio sulla Camorra, il cui direttore allora era il sociologo Amato Lamberti. Tutto questo non è bastato a non farlo condannare a morte. Perché hai voglia a denunciare certi fenomeni malavitosi, se lo Stato non t’aiuta a combatterli, se la democrazia è inceppata, se chi è al vertice delle istituzioni nicchia per non scontentare una parte dei grandi elettori; se la gente che si dice per bene non ha il coraggio di dire da che parte sta, non riesci a vincere, rimani solo nel mirino delle mafie che vuoi combattere.
Non so se Siani conoscesse l’aforisma di Benedetto Croce sui giornalisti: ”Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno”. Certo lo praticava, a differenza di tanti colleghi pronti ad auto censurarsi per ”non dare un dispiacere a qualcuno”.
di Elia Fiorillo