di Elia Fiorillo
Non si digerisce facilmente il filmato che riprende bambini picchiati da chi dovrebbe educarli. L’efferatezza è sì in quei capelli tirati ripetutamente, nei colpi sulle manine indifese, ma soprattutto nel gesto ipocrita e colpevole di chi, appena sente entrare un estraneo nel “nido”, trasforma l’atto d’inciviltà, d’odio anche verso il proprio mestiere, in posa d’amore, in carezze. Mistificazione atroce che conferma che le azioni violente erano perpetrate con “scienza, coscienza e volontà”. Non sotto un impeto d’ira che pure ci può essere. Nella giustificazione della maestra c’è l’insopportabilità del proprio lavoro, i tanti problemi di famiglia, la malattia della madre. Cose d’ordinaria quotidianità che colpiscono ogni giorno tantissima umanità. Non giustificano però tanta violenza destinata a segnare bimbi indifesi e incolpevoli per le loro intemperanze. C’è chi, dopo aver visto il filmato, grida alla giustizia sommaria, al dente per dente. Immagini così crude fanno scattare visceralmente sentimenti di reazione feroce; di punizione “ora e subito”. Quando sono colpiti simboli intoccabili nell’immaginario collettivo, è il minimo che possa capitare anche ai soggetti più equilibrati e garantisti. Mi chiedo: ma è stato giusto mandare in onda al Tg 1 quel filmato? Francamente credo di no. Certo, ha fatto scattare insieme ai rigurgiti di azioni violente contro le maestre aguzzine, un bisogno di capire di più una realtà, quella degli asili nido – al di là se pubblici o privati-, delicatissima, che si può prestare ad abusi difficili da individuare e colpire. Ma quel filmato è anche, forse, andato contro la carta di Treviso a tutela dei minori e contro il Codice deontologico dei giornalisti sull’efferatezza delle immagini da pubblicare. Questo però è un altro discorso. Resta il fatto che è diventato un costume nazionale, una vera e propria pratica, andare a toccare le viscere degli individui, senza mediazione – anche e soprattutto in politica -, invece di premere tasti, certo più difficili e complessi da suonare, che però siano diretti al cervello delle persone, per farle pensare, ragionare, riflettere.
Stefano Cucchi è un trentunenne “balordo”. Piccolo spacciatore tossicodipendente. È arrestato in flagranza di reato. Gli trovano addosso pochi grammi di droga. I carabinieri che lo arrestano lo portano in caserma, poi al tribunale. Ordinaria routine per uno così. Non c’è niente però d’ordinario nella sua morte. Si vedono sul suo volto nelle foto segnaletiche i segni inconfondibili di traumi violenti. L’esame autoptico rivela lesioni gravi per tutto il corpo. Una caduta? Oppure l’azione violenta di chi dovrebbe rispettare la sua condizione di prigioniero? Di uno che proprio per il suo status non si può difendere. Uno così va sempre e comunque tutelato, anche in presenza d’intemperanze. Nel caso di Cucchi non ci sono filmati a inchiodare eventuali colpevoli. Ci sono dichiarazioni di detenuti stranieri su cui la magistratura sta indagando. Ma ci sono soprattutto forze dello Stato in contrapposizione, più attente a salvaguardare la loro reputazione che impegnate a cercare la verità nel proprio interno, anche se essa si dovesse rivelare scomoda. Per lo meno è questa la sensazione che si ha nel leggere i giornali. Il credito, la stima da parte dell’opinione pubblica, si mantiene soprattutto quando si ha il coraggio di tirare fuori le cose dolorose, che non sono andate per il verso giusto. Come anche l’immediato proscioglimento dei medici dell’Ospedale Pertini di Roma, ad opera della direzione del nosocomio, che hanno curato il carcerato Cucchi, sa tanto di voglia di chiudere il caso al più presto. Che cosa rappresenta nella società un balordo, drogato, spacciatore? Meno che niente.
Nei due casi citati il fil rouge che lega le storie è la “debolezza” di fronte al potere assoluto esercitato da chi dovrebbe essere molto attento e partecipe a tutelare, appunto, la condizione di fragilità estrema di chi gli viene affidato. E, invece, in alcuni casi – mi auguro limitati – l’educatore, il poliziotto, il secondino e via dicendo si trasformano in oppressori violenti. Più hanno a che fare con la debolezza più infieriscono con la forza. Forti con i deboli e deboli con i forti. Per la verità questo detto nella società attuale sta diventando un’usanza aberrante che nasconde profondi malesseri e va rimossa soprattutto investendo in cultura, a partire dalla scuola.
Attenzione ad accantonare questi due casi emblematici come fatti di cronaca e basta. Sono segnali che vanno colti. Al di là delle specifiche storie, dove sicuramente la magistratura farà la sua parte con equità e senza vendette, bisogna approfondire i tanti temi che la vicenda delle maestre e la storia di Cucchi si portano dietro, a partire dalla tutela dei più deboli.