non c'è libertà senza passione!

di Elia Fiorillo

Quello che più colpisce nella storia tragica di Stefano Cucchi, il giovane arrestato per spaccio di droga e uscito cadavere dopo sette giorni di detenzione, è l’assoluta mancanza di umanità di tutti i soggetti che lo hanno avuto in cura. I secondini che pestano il detenuto; i medici del reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini di Roma che coprono le bestialità degli agenti e sottovalutano le condizioni di salute del recluso; funzionari dell’amministrazione penitenziaria che trasferiscono il Cucchi in una sezione ospedaliero-carceraria, più per occultare i traumi inferti al detenuto che per curarlo. Insomma, ci troviamo di fronte ad una vera catena di “solidarietà” (sic), assurda ed immorale, contro un piccolo spacciatore drogato che non meritava di morire perché finito in carcere.

Il caso Cucchi ha fatto scalpore soprattutto per la costanza e la tenacia della famiglia. I media hanno seguito la vicenda con puntigliosità. Il Parlamento ha sentito la necessità di nominare una commissione d’inchiesta sul caso. Il processo penale accerterà se le basi accusatorie così pesanti per gli indagati hanno fondamento. Resta il fatto che la morte di Cucchi ha aperto, per fortuna, un varco nelle nostre coscienze sullo sconosciuto pianeta carcerario; sulle tante morti  senza nome e senza storia che avvengono oltre le mura delle case di pena.

Si discute tanto di giustizia nel nostro Paese, ma forse poco e male di galera e di carcerati, ovvero delle loro condizioni. I muri alti che separano i condannati da noi liberi cittadini possono creare  microcosmi d’ingiustizia dove spesso comanda il più forte, che non è detto che sia il detentore del potere in quel contesto: l’amministrazione carceraria, l’agente di custodia. No, può essere il detenuto di rango, il raccomandato, il camorrista o mafioso dai solidi legami interni ed esterni. In situazioni complesse come quella carceraria i rapporti di potere si possono invertire, la guardia carceraria  può anche diventare vittima di quel sistema. In luoghi come le prigioni dove le libertà individuali sono ristrette, limitate, gli abusi possono avere terreno fertile specialmente su detenuti deboli come lo era Stefano Cucchi. Ed è proprio in situazioni così difficili che c’è bisogno della massima trasparenza di gestione. Cosa certo non semplice.

Come si fa a gestire penitenziari superaffollati con strutture, per esempio,  igienico-sanitarie assolutamente insufficienti? Se quei luoghi fossero strutture civili quasi sicuramente una visita dei Carabinieri del reparto NAS  li metterebbe fuori gioco. Per non parlare dell’assoluta carenza di iniziative finalizzate al recupero dell’individuo che ha sbagliato. Ecco, l’importanza del reinserimento nella vita civile  di chi ha errato è un cardine  fondamentale per un Paese che vuol dirsi, ma soprattutto essere, civile e democratico. Ma il “reintegro” rimane sulla carta e nella Carta costituzionale, quasi inapplicabile nelle condizioni testé descritte. Anche perché, sotto sotto, c’è un pensiero dominante che vuole che chi sbaglia una volta quasi sempre reiteri l’errore. Non proprio delinquenti si nasce, ma se lo si diventa,  lo si è per sempre. Un pregiudizio fuorviante che fa diventare la galera un luogo di non ritorno per chi c’entra. Una vera scuola di delinquenza che la società civile paga a caro prezzo.

Non a caso il carcere, appunto, è quello che oggi è: un luogo dove è più facile perdersi definitivamente, che ritrovarsi. Lo sbattere  dentro il delinquente sicuramente tranquillizza la collettività, dà una risposta concreta al bisogno di sicurezza che oggi tutti noi avvertiamo quasi a livello fisico. La nostra tranquillità prima di tutto, a qualsiasi costo. Ma non è con la galera che risolviamo, ad esempio, i nostri nuovi problemi di società multietnica; che sistemiamo le questioni che ci vengono dai soggetti come Cucchi. Nel caso specifico, ed in tante altre circostanze simili, misure alternative come, ad esempio, l’affidamento alla famiglia, con l’obbligo di cura della tossicodipendenza, poteva essere la migliore soluzione per il possibile “reinserimento” del soggetto nella società.

Su materie delicate e sensibili per l’opinione pubblica come il sistema carcerario le forze politiche, più che fare propaganda con gli argomenti più vari,  farebbero meglio a ragionare pacatamente  su come migliorarlo – al di là della costruzione di nuove strutture pure necessarie-, nell’ottica esclusiva del reinserimento del detenuto nella società civile. 

Speriamo che la morte di Stefano Cucchi possa servire a questo.