Matteo Renzi il suo predecessore a Palazzo Chigi se lo sognava la notte. E non per il licenziamento in tronco che gli aveva regalato. Scrupoli non ne aveva in proposito. Il vero problema era la “discontinuità”. Guai se l’opinione pubblica avesse ravvisato nel suo gabinetto una copia, sia pur bella, del governo Letta. Nemmeno minimamente il raffronto doveva incontrare punti similari, analogie. Certo, non era una cosa facile. Se poteva inventarsi qualche gioco di prestigio per mutare la maggioranza che avrebbe sostenuto il suo esecutivo l’avrebbe fatto. Ma, non c’era niente da fare su questo fronte. Alfano ed i suoi erano inamovibili e doveva stare attento a non tirare troppo la corda. Alla fine la barca governativa è salpata con la benedizione “Urbi et Orbi” di Giorgio Napolitano che, nelle quasi due ore e mezzo di confronto, qualche “alt” su designazioni non ritenute all’altezza del ruolo l’avrà dato anche se lui, il presidente della Repubblica, dice che non c’è stato con Renzi alcun braccio di ferro. Di sicuro l’esecutivo Renzi non potrà essere chiamato “il governo del presidente” Napolitano.
Nella nuova squadra sono stati mandati a casa tre attaccanti di punta, Emma Bonino, Mario Mauro, Enzo Moavero Milanesi, rispettivamente ministro degli Esteri, della Difesa e degli Affari Europei (ministero quest’ultimo cancellato). Tutti e tre con conclamate esperienze internazionali e, soprattutto, europee che avrebbero certo aiutato l’ex sindaco di Firenze a gestire la presidenza italiana dell’Unione Europea e, comunque, i rapporti complessi con Bruxelles. Tenuto conto che le partite decisive dell’Italia, volenti o nolenti, si giocano proprio in trasferta, esoneri del genere possono creare non poche complicazioni. Se t’imponi però di dare un’immagine diversa dal passato, puntando su outsider giovani, per metà donne, allora il rischio di dover fare scelte drastiche e non ben viste – nel mondo degli addetti ai lavori – è forte.
“Riforme, riforme, riforme” è il leitmotiv che Renzi ha ripetuto in ogni occasione che gli si è presentata ultimamente. Ed anche il capo dello Stato non poteva che essere d’accordo su tale proposito. “Condivido – afferma Napolitano – l’esigenza espressa da Matteo Renzi di realizzare in tempi brevi le riforme istituzionali ed economiche, non possiamo permetterci il lusso di perdere questa occasione”. Ma una cosa non basta volerla fortemente perché si realizzi. La prima riforma da varare, a parere di tutti, è quella elettorale. L’accelerata iniziale per il varo dell’Italicum, con il relativo accordo con Berlusconi, pare però destinata ad esaurirsi, visto che va riformato prima il Senato. E’ l’intesa raggiunta con Alfano, che perde la vicepresidenza del Consiglio, ma sostanzialmente mantiene le posizioni, anzi si rafforza proprio sulla non più immediata riforma elettorale. Si parla di governo di legislatura con scadenza naturale nel 2018. Grande sospiro di sollievo per i tanti parlamentari – di tutti i partiti – che non sono sicuri di poter mantenere il loro scranno anche per il futuro, in primis, ovviamente, i senatori della Repubblica. Il Cavaliere non può starci. Digrigna i denti. Non toglie la fiducia personale a Renzi, ma non può essere contento per l’assicurazione sulla vita a NCD che il presidente del Consiglio ha concesso al suo ex pupillo. Starà a guardare come il sornione gatto Silvestro, pronto a dare una zampata micidiale ai suoi nemici. Nel frattempo continua a fare campagna elettorale in preparazione alle elezioni europee di maggio. Quello è l’evento decisivo per i futuri scenari. Lo sanno bene sia Berlusconi che Renzi.
E proprio quell’evento così vicino che fa ripetere a Renzi, come un ossesso, che bisogna “correre, correre, correre”. Anche i suoi ministri, passata la festa del giuramento e delle interviste propositive, sanno che già da questa prima settimana del loro mandato dovranno non promettere, ma varare provvedimenti che diano all’opinione pubblica il senso del cambiamento, che la palude la si sta bonificando. I due ministri che da subito dovranno ingranare la “sesta” marcia sono Pier Carlo Padovan e Giuliano Poletti. Un tandem “stagionato” in fatto d’età e d’esperienza. Loro possono (devono) dare una cifra al governo in tempi più che stretti. L’esperienza ce l’hanno, bisogna vedere se le loro personalità non andranno in rotta di collisione con il nocchiero Renzi.
Di lavoro, meglio del lavoro che non c’è, si è parlato tanto. Giuliano Poletti, ex presidente della Lega delle Cooperative e rappresentante di spicco dell’Alleanza delle Cooperative Italiane, l’organizzazione unitaria di tutto il mondo della cooperazione, dovrà varare un piano del lavoro che soddisfi tutti: sindacati, imprese, lavoratori e aspiranti tali. Il mestiere d’imprenditore lo conosce bene, come conosce il difficile rapporto con i sindacati. Potrà riuscire nel suo difficile compito se avrà carta bianca – e le risorse adeguate – dal capo del governo.
C’è poi un altro problema che può apparire secondario, ma che non lo è per l’immagine dell’Italia in fatto di diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo condannò l’Italia al pagamento risarcitorio di centomila euro per le condizioni “inumane e degradanti” in cui erano reclusi tre detenuti. Diede un anno di tempo al nostro Paese perchè risolvesse complessivamente la questione carceri. L’anno sta scadendo. Napolitano, per la prima volta nel corso dei suoi due mandati, inviò un messaggio alle Camere ipotizzando, tra l’altro, il ricorso all’amnistia ed all’indulto. Segnali non ne sono venuti dai due rami del Parlamento. Matteo Renzi da subito si dichiarò contrario a norme che mettessero in libertà “delinquenti”. Il problema resta e va affrontato sia per non continuare a essere ritenuti “torturatori”, noi “italiani, brava gente”, sia per gli enormi esborsi risarcitori che non è difficile prevedere.
di Elia Fiorillo