di Elia Fiorillo
Delara Darabi è stata impiccata a soli ventitré anni, all’improvviso, senza alcun preavviso. Pare che il giudice avesse concesso una proroga di due mesi all’esecuzione, in attesa che i parenti della vittima riflettessero sulla concessione del perdono. Era accusata di un presunto omicidio commesso all’età di diciassette anni. Forse al regime iraniano dava fastidio la sua notorietà di pittrice o, chissà, quella popolarità è stata strumentalizzata per fare notizia. Può darsi che nei meccanismi perversi ed egocentrici di quella dittatura servisse l’ennesimo esempio di quanto poco conti una vita umana, specialmente se donna o minore. Lei, Delara, ha avuto solo il tempo, prima di essere giustiziata, di comunicare sbigottita alla mamma ed al papà che la stavano per uccidere. Non un gesto di pietà, di ultimo addio, quella telefonata voluta dai suoi carnefici, ma il segno malefico ostentato di un potere che leva la vita quando vuole, anche a bambini di nove anni, per efferatezza da esibire, nell’ottica della gestione del potere.
Chi è stato in Iran ha avvertito di certo lo scorrere lento e sereno della vita di tutti i giorni. Specialmente a Teheran c’è un brulicare di iniziative, di commerci, di traffici dove anche la donna ha un ruolo rilevante, se non primario. Certo, colpiscono le figure femminili con i loro abbigliamenti per noi anacronistici e con le contraddizioni vistose che tutte le forme repressive alla fine fanno scattare quasi in automatico. Capelli coperti da pesante stoffa nera, abiti a forma di casacche militari, ma viso curato e truccato come non trovi nemmeno nelle donne occidentali. Anche qui è arrivato il chirurgo plastico ad armonizzare nasi e zigomi “importanti”. La sharia certe licenze non le prevede, ma esse ci sono ed appaiono segni inequivocabili di rivoluzione culturale. Certo, gli uomini nei tram stanno in vagoni riservati, spesso seduti, mentre le donne sono assiepate da un’altra parte. La donna in pubblico non può parlare, è silenziosa e sottomessa. Appena però la osservi mentre si confronta liberamente con l’altro sesso, quello dominane (sic) – il maschio è maggiorenne a quindici anni, la donna solo a nove -, le scopri una maturità inaspettata. Ma anche l’uomo è diverso dallo stereotipo che ti sei fatto: è aperto, estroverso, curioso.
Sempre, in modo più o meno evidente, le dittature, per mantenersi e prosperare, hanno avuto bisogno delle cosiddette tre effe: feste, farina e forca. La forza ed il terrore sono, al solito, alla base di tutto. La voglia dell’atomica tanto ostentata dal presidente Ahmadinejad fa parte del gioco. Poi viene il benessere quotidiano, il pane, che anche se in misura stentata non deve mai mancare. Ed in fine, ma non ultimi, i diversivi ludici che fanno bene, soprattutto al potere, perché distraggono, fanno pensare ad altro.
L’argomento che non puoi toccare a Teheran o a Isfahan è la preoccupazione che una realtà come l’Iran possa avere l’atomica. Uomini e donne, emancipati o meno, ti guardano esterrefatti nella certezza che l’Occidente, l’odiata America, non vuole il progresso di questa realtà, la vuole schiava. Sulla tematica energia nucleare ti accorgi che la propaganda ha fatto il suo effetto e più il mondo esterno batte questo tasto, più c’è coesione tra tutti i ceti. Cosa diversa è per i diritti civili negati. Nessuno ha voglia di parlarne per pudore, per paura, per dissenso. Hanno ragione, a mio avviso, quegli intellettuali che sostengono che bisogna ripensare alla strategia d’approccio nei riguardi di Teheran. Non è cosa semplice vista l’aggressività del regime, soprattutto per ragioni interne, verso l’Occidente e la sua cultura. Bisogna però evitare azioni e posizioni che possano involontariamente rafforzare un regime tollerato, ma certamente non amato. Non è sempre vero che un popolo si merita il governo che ha. Nella democrazia compiuta è così; per la dittatura il discorso non vale. Nello scacchiere mondiale l’Europa, nei confronti dell’Iran, può fare molto. Mai abdicando alla denuncia ferma e costante dei crimini efferati contro la persona umana ed i suoi diritti civili e politici, ma evitando di accomunare, facendo di tutta l’erba un fascio, i carnefici con le vittime. Per fare tutto ciò l’Europa deve decidersi ad avere una politica estera che sia tale, che vada al di là degli interessi degli stati che la compongono.