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corruzioneNoi italiani dovremmo darci una regolata in fatto di corruzione. Il nostro “indice di percezione della corruzione”, elaborato dall’associazione non governativa Trasparency International, ci dà al settantaduesimo posto nella classifica mondiale. Ai primi posti tra i paesi dove “l’abuso di pubblici uffici per il guadagno privato” è meno alto ci sono la Danimarca, la Finlandia e la Nuova Zelanda. Tra gli ultimi, al centotrentatreesimo posto, l’Iran. I nostri cugini europei Germania e Francia sono rispettivamente al tredicesimo ed al ventiduesimo posto. La Corte dei conti italiana non sottovaluta la graduatoria di Trasparency International ritenendo che lo scivolamento verso il basso di un solo punto dell’Italia pesi in maniera grave sugli investimenti esteri. La Corte ha accertato il costo della corruzione nel nostro paese, dati 2008, in circa sessanta miliardi di euro.

Ci farà rimontare qualche posto nella classifica di Trasparency la recente legge 190, del novembre 2012, che detta regole per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione? Non si può che sperarlo. Sicuramente l’Italia ad una normativa sulla corruzione c’è arrivata con notevole ritardo. La Francia, dopo una serie di scandali nel suo apparato pubblico, varò una direttiva di prevenzione e di contrasto della corruzione già nel lontano 1993. L’Italia pur avendo avuto nel 1992 la scoperta di Tangentopoli e l’era di Mani Pulite non ritenne opportuno affrontare la questione legislativamente: tirò a campare. Roberto Garofoli, segretario generale della presidenza del Consiglio, pur ritenendo che la legge presenta delle lacune, ad esempio non disciplina il fenomeno del lobbismo previsto e regolamentato in altri paesi, valuta la sua indispensabilità dopo anni d’immobilismo.

Varata la legge, giù le critiche per quello che non contiene, o per l’eccessiva severità dei suoi dettami. Secondo alcuni c’è un vero e proprio abbaglio del legislatore nel voler ordinare anche ciò che non è possibile codificare. Come possono andare d’accordo la trasparenza degli appalti pubblici nel settore dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, con la necessità della “competizione”, del “mercato”, per dare ai cittadini servizi efficienti a costi bassi?

Al di là delle norme più o meno severe ed applicate, a volte sono i comportamenti e gli atteggiamenti che penalizzano il nostro paese in fatto di percezione delle illegalità. Lo ha ben spiegato al convegno dal titolo “Dei delitti e delle pene”, promosso dalla Confservizi, Antonio Caponetto, consigliere della presidenza del Consiglio dei ministri. L’Italia è uno dei paesi dove i controlli sui fondi europei sono molto severi. Altre nazioni non hanno la stessa determinazione per quanto riguarda questi tipi di accertamenti. Per assurdo, più indagini e relativa scoperta di frodi, difronte a paesi disattenti – o furbi? – su questo versante, può dare l’idea sbagliata di una maggiore corruttela nei confronti di altre realtà nazionali. Anzi, in alcuni settori merceologici, ad esempio quello alimentare, il contrasto alle sofisticazioni, fatto con determinazione e costanza dal nostro paese, viene utilizzato dai competitor internazionali dell’agroalimentare italiano nel senso opposto. Più truffe vengono scoperte e più siamo additati non come realtà virtuosa, ma all’incontrario. A tale proposito andrebbe approfondita una strategia nazionale della comunicazione istituzionale che, nei limiti del possibile, punti ad evitare che vittorie sul fronte delle frodi si trasformino in danni economici incalcolabili per l’immagine dei settori interessati. Insomma, studiare come evitare che i meriti si trasformino d’amblè in demeriti, con la conseguenza non logica di premiare i nostri concorrenti non leali.

Lo sforzo del legislatore è stato, tra l’altro, quello di provare a sganciare la “politica” dalla “gestione” e, quindi, di evitare tutti i possibili condizionamenti che potessero venire da nomine gestionali a soggetti che hanno fatto politica. Sotto accusa è il comma 49 dell’art 1 della legge, ritenuto particolarmente vincolante perché mette sul campo eccessivi paletti ed innumerevoli gabbie. Sull’argomento, a provare l’illogicità della disposizione e della sua iniquità difronte ad altri ordinamenti, ritorna l’esempio di un magistrato che fonda un partito e che alla fine della campagna elettorale non vinta, rientra a fare il suo mestiere, solo con piccoli aggiustamenti territoriali anti discesa in politica. Cosa che non può avvenire nella gestione d’imprese pubbliche, appunto per il dettato del comma in argomento.

Tutto è migliorabile s’intende, e deve essere fatto, ma attenzione, ci sono modi e modi per farlo. Sparare ad alzo zero sulla legge, come fa qualche esponente dell’opposizione o certi amministratori che vedono ridotto il loro ambito gestionale, serve solo a fare la solita “caciara” che aiuta chi fa finta di voler “cambiare tutto, per non cambiare niente”.

di Elia Fiorillo