non c'è libertà senza passione!

opportunita-di-lavorooccupazione‘”Italian shit”. “Italiani di merda, ci rubate il lavoro”. Gridavano così gli aggressori di Joele Leotta, diciannove anni, mentre lo picchiavano a morte. Una vita spezzata proprio quando aveva imboccato il sentiero stretto del primo lavoro, più o meno stabile. Non nel suo Paese però, ma nel Regno Unito. Nella penisola natia  un straccio d’impiego non l’aveva trovato. E, allora, l’idea dell’estero si era fatta strada nella sua testa, come in quella di tanti altri “ragazzi” come lui. Proprio quando il sogno s’era realizzato è giunta la morte orrenda, per mano di altri  coetanei. Per razzismo? Per stupidità? Per invidia? Chissà.

Il ragazzo del bar è simpatico. Sembra una trottola nel servire ai tavoli le bevande più varie. Casualmente inizia la conversazione. Siamo a Londra, al punto di ristoro della Royal Horticultural Halis, dove si svolge “Welcome Italia” che, come cita il depliant di presentazione dell’evento, è “la più importante e attesa manifestazione dedicata al settore food & beverage, volta a promuovere i prodotti, il territorio e la cultura enogastronomia italiana”. Ci sono i vini, gli oli, i formaggi, le tante prelibatezze italiane che il mondo c’invidia, e ci copia, e che noi spesso non sappiamo difendere. Non è un caso che non riusciamo a unificare il nostro Paese nemmeno sotto il profilo gastronomico. Tante cucine regionali che non vogliono trovare il minimo comun denominatore che le unisce, per farle diventare “patrimonio immateriale dell’umanità”, come lo sono la cucina francese e quella messicana. Eppure il fil rouge che lega tutto c’è ed è rappresentato dagli innumerevoli prodotti che al “Welcome Italia” sono eccellentemente presentati.

“Sono venuto a Londra sette anni fa”, racconta il giovane barista. “Mi sono imposto tre mesi di tempo per inserirmi nel contesto londinese”. La faccia paffutella del giovane, con un filo di barbetta nerissima appena accennata, esprime soddisfazione quando afferma che: “Oggi posso dire di avercela fatta, di esserci riuscito”. Più o meno la stessa scena al ristorante francese dove siamo capitati quasi per caso, gli altri locali dove mangiar qualcosa erano tutti strapieni. La bella ragazza che prende le orinazioni è italiana. La mattina studia, il pomeriggio lavora. Le chiediamo se è stato difficile per lei trovare un’occupazione. “Una volta arrivata qua, mi son data subito da fare”, esordisce sorridendo. “Ho battuto il quartiere negozio per negozio, locale per locale”. Si fa seria quando afferma che non tutti, alla richiesta di lavoro, sono stati gentili con lei. “Poi sono arrivata in questo posto e mi hanno accolto a braccia aperte; la sera stessa ho cominciato a lavorare”. Alla domanda se ha intenzione di ritornare in Italia, risponde senza pensarci troppo: “Qui mi trovo bene, sono due anni ormai che sono a Londra e non ho nostalgia del nostro Paese. Si fa troppa fatica a vivere da noi.”

Nei tre giorni di fiera i visitatori sono tanti. Li accomuna una curiosità, a volte insistente, ma assolutamente non pretestuosa ed interessata alla qualità. Vogliono capire per apprezzare e comprare. Nel loro immaginario l’Italia è tutta “good”. Un po’ meno “buono” vedono il Belpaese chi c’è nato ed è stato costretto a lasciarlo.

Alto, magro, sorridente. Ha ventuno anni e anche lui lavora in un ristorante: specialità caraibiche. Ci racconta che è fuggito dall’Italia per mancanza di prospettive. Certo, ci dice, la vita a Londra non è tutta “rose e fiori”, ma se la cerchi una possibilità c’è, la trovi. “Io nel nostro Paese ci ho provato, mi sarebbe piaciuto rimanere a casa, ma a fare che: il bamboccione mantenuto a vita dai genitori?” Le mani, nervose, del giovanotto sottolineano con ampi gesti i suoi stati d’animo. Insomma, odio e amore per una realtà stupenda ed impossibile. Una bellissima donna, che pure ha in sé caratteristiche positive, ma è fatua, piena di sé, che non riesce a confrontarsi con il mondo che la circonda. “Qui anche i mutui bancari non sono un problema – afferma lo spilungone dalle mani nervose -, se hai un lavoro come il mio, pur non avendo beni al sole, lo puoi ottenere.”

Con una frangetta un po’ snob su un visino esangue allungato, insieme ad un’amica, assaggia oli. Un po’ se ne intende, ma calca la mano con i due giovani espositori che gli presentano i vari oli. Ha bisogno di consenso, di essere riconosciuta come un’esperta del settore, anche se non lo è. La conversazione tra i quattro giovani italiani cade sull’Italia e sui “ragazzi” che cercano fortuna a Londra. La giovane con la frangetta, che non fa trapelare che lavoro fa nella città della Regina Elisabetta, spara una sentenza molto caustica sui connazionali che cercano lavoro nel Regno Unito: “Sono come i polacchi che ai tempi di Giovanni Paolo II hanno invaso l’Italia”. Al di là di Karol Wojtyla, il miracolo che attira tanta “bella gioventù’” è il lavoro che c’è, se lo cerchi.

Arriva Marco Tardelli a “Welcome Italia”, il leggendario giocatore della nazionale italiana che i più vecchi ricordano nel famoso urlo di esultanza quando l’Italia vinse nell’82 la Coppa del Mondo, con un sofferto tre a due sulla Germania. Anche lui è emigrato da queste parti. Allena una squadra locale e, quando occorre, per amicizia, cucina risotti per esaltare il “mangiare italiano”. All’evento di Tardelli ci sono tanti emigrati italiani, non più giovani. C’è Cristina, “Founder & Fashion editor”; Elisa, “Art Moorhouse”; Enzo, “The sicilian chef”. C’è il comm. Salvatore, “photojournalist”; Giovanni, “Country manager Alitalia”; Leonardo, “president the Italian Chamber of commerce and industry for the Uk”. E tanti altri a cui sarebbe interessante chiedere come fare per bloccare quella inesorabile decadenza in cui la bella donna Italia, piena di sé e fatua, sta rotolando. Da qui, da Londra, tutto è più chiaro, anche i “nonsense” della politica verso l’occupazione giovanile, ma non solo in questo, per la verità.

Elia Fiorillo