di Franca Rovigatti
La conosco dai primi anni Ottanta, quando una sera la vidi al Metateatro bianca e lunga come una lama di luna, bellissima, intatta, lontana. Poi, a Istanbul, in una sua tournée a cui casualmente partecipai, facemmo amicizia. Da allora, ogni tanto mi arrivava per posta una “sua” cartolina, fatta da lei, con sapientissimo uso del collage: mirabili paesaggi mentali, bizzarri personaggi immaginari, maschere giapponesi, forme astratte e morbidamente angolari, grafemi in trasformazione, boomerang, animali… Dietro, la sua firma, Patrizia, nell’armoniosa e disciplinata grafia. Un vero dono di arte e grazia. Pensai subito: “mail art”. Ma questo era di più, era meglio: era come se lei spedisse ai suoi amici pezzetti di sé, frammenti del suo stupefacente essere, senza mai esaurirsi, senza mai esaurirli. Un’operazione di estrema generosità, eseguita con assoluta leggerezza. Dico questo perché credo che, nel parlare dell’arte di Patrizia Bettini, non si possa prescindere da quello che lei è, dalla sua, come dire, anima: libera, leggera, generosa e sapiente.
Quando si entra nella sua casa (che lei, giocando, dice “della sciamana, della sciamannata”) si ha davvero l’impressione di entrare in una casa magica: ma magica in modo disciplinato, come una
grande tessitura dello spazio e del tempo in cui ogni trama e ordito se ne stia al posto suo, liberamente, felicemente. Nella luce delle tende arancione, si dispiega una grande armonia e ricchezza: scatoloni e classificatori di cartoline e collages, ma anche di copioni, diari pieni di disegni e quotidiana scrittura (lei ha scritto e scrive poesia) con copertine-opera, “gonne” di strisce e nastri (“bellissime per ruotare”, dice lei), borse brulicanti di forme, abiti dipinti a stencil sulla traccia delle sue figure, arazzi finissimi in cui le campiture di colore si articolano sull’infittirsi delle carte strappate. Perché da un po’ di anni, oltre che tagliare Patrizia strappa le vecchie carte, le dipinge, le monta.
Le tecniche che lei adotta sono multiple e si intersecano. Le silhouettes, per esempio, di cui Patrizia usa sia le singole forme ritagliate che il foglio-matrice, risultandone in quest’ultimo caso delle “inferriate” cartacee che riproducono, per via di vuoto, il fantasmagorico susseguirsi delle figure: cortei di lupi che inseguono fanciulle, di donne-forchetta che incontrano germogli, di alfabeti… L’arte della silhouette nasce nell’Europa del Settecento e continua per tutto l’Ottocento: sono immagini rigorosamente nere, prima ritratti e poi, per lo più, scene di genere. Ma ci sono anche artisti che hanno lavorato, e lavorano, con la silhouette, e il primo che mi è venuto in mente vedendo il lavoro di Bettini è il grande Hans Christian Andersen, le cui silhouettes sono complesse e ricchissime giostre di personaggi e segni. Anche lui usava talvolta le matrici vuote. Là dentro, in Andersen come – fatte le dovute differenze di linguaggio – in Bettini, c’è un ricchissimo mondo di favola, magico, c’è un grande muoversi e brulicare.
Casa magica: come la “Casa del Mago” di Depero. Le forme degli omìni e donnine e animali di Bettini (i suoi arazzi, i suoi abiti e borse – l’estensione dell’arte alla vita, l’adesione della vita all’arte) richiamano subito la straordinaria esperienza di Depero. E non stupisce, allora, sapere che anche Patrizia è di Rovereto: come se in quel luogo naturalmente quel “sangue creativo” si fosse potuto trasfondere e rigenerare. Maga.
Un’ultima cosa, che mi tocca e commuove: nulla, per Patrizia, è indegno d’arte. Frammenti rotti raccolti per strada, piccoli cuori di buccia di pomodoro seccata, scorze di cetriolo segnate dalle intemperie: tutto, nelle sue laboriosissime mani, diventa arte. Mani che tagliano e strappano, ma che anche cuciono, incollano, ricompongono.