non c'è libertà senza passione!

di Elia Fiorillo

Settimo comandamento:”non rubare”. Pare però che sia difficile applicarlo, proprio quando dovrebbe essere più naturale tenerlo presente. Quando cioè si gestisce la res pubblica. E, invece, lo status di “servitore del Paese” sembra che si porti dietro una speciale condizione psicologica che si trasforma nella “sindrome d’impunità”, che ti fa non applicare anche altri comandamenti. Il sesto, ad esempio, che t’impone di non fornicare; il decimo che vieta il desiderio della roba d’altri. A pensarci bene un po’ tutto il decalogo viene trasgredito.

Non sono esclusivamente del nostro tempo taluni fenomeni di corruttela nella pubblica amministrazione. Attualmente assumono sembianze diverse. Si individualizzano. Il fenomeno di Tangentopoli, in buona sostanza, si basava su “mariuoli“, per così dire, “sociali”. Il finanziamento dei partiti – e non solo – avveniva attingendo in modo illegale al danaro pubblico. Gli appetiti tangentisti avevano connotazioni per lo più non individualiste. Non che non ci fosse la cresta sul malloppo destinato ai partiti, ma nella generalità dei casi il fiume di danaro pubblico sottratto veniva utilizzato proprio dalle formazioni politiche per mantenere le strutture del consenso; per il raggiungimento del potere. Insomma, una catena di San Antonio che faceva capo sui soliti ingredienti: appalti pubblici, incarichi in posizioni strategiche, favori ripagati con moneta sonante. 

Nelle ultime vicende la “ragion di partito” non c’è più. Anche perché il finanziamento pubblico dei movimenti politici e delle loro testate giornalistiche ha, in parte, risolto la questione.

Alla Camera dei deputati, nel lontano 29 aprile del 1993, Bettino Craxi – dopo aver ricevuto all’incirca venti comunicazioni giudiziarie – spiega che tutti i partiti si servono delle tangenti per autofinanziarsi, anche quelli “che qui dentro fanno i moralisti”. Afferma che i finanziamenti illeciti sarebbero stati necessari alla vita dei partiti e delle loro organizzazioni per il mantenimento delle strutture e per la realizzazione delle varie iniziative politiche che mettevano in essere. Sottrazioni, insomma, per fini sociali (sic).

Oggi è un’altra cosa. Il maltolto va a finire nelle tasche di singoli soggetti o cricche private per puro arricchimento. Anche se la catena rimane la stessa: appalti, favori, consulenze.

Una volta la più grande gratificazione per un politico era quella di poter andare a ricoprire un “posto al sole” nell’empireo di palazzo Madama o Montecitorio. Per non parlare dell’ascesa a posizioni di governo. Ci si sacrificava una vita. Si cominciava con l’oratorio, per i cattolici, o con le riunioni di sezione, per i comunisti o con mille attività collaterali, per tutti. C’erano poi i centri studi, il sindacato, le sezioni di partito. La gavetta era tosta, ma assolutamente necessaria se si voleva fare politica. Non sempre i migliori andavano a ricoprire le postazioni più significative. Comunque, erano soggetti dalla lunga militanza. Una garanzia, per certi versi. L’arricchimento, l’accumulo, non era importante. Non costituiva uno status. Anzi, guai a non essere sobri nella vita quotidiana. Quello era il tempo in cui alcuni partiti praticavano “la trattenuta” sugli stipendi dei parlamentari. Anche per non staccare troppo dal reale, dagli stipendi dei comuni mortali, gli eletti dal Popolo sovrano.

La scena oggi è cambiata. C’è il leaderismo con chiamata diretta che non fa più rispondere i designati alle esigenze della politica, ai collegi, ma esclusivamente a quelle dei capi. Ci sono evidentemente anche politici dalla lunga militanza, legati intimamente alla società civile, ma è duro confrontarsi con chi, ad ogni piè sospinto, non riesce a leggere il “territorio” ed il “sociale” nella propria autonomia di pensiero, ma solo nell’ottica del leader di riferimento.

In un quadro di così forte personalizzazione e anche d’imitazione del potente, l’accumulo diventa a volte un bisogno primario. Più accumuli e più sei. E i valori, i comandamenti? Roba di altri tempi. No, roba di questi tempi. Per combattere la delegittimazione c’è bisogno di una “politica dei quadri” fatta alla vecchia maniera. E di leadership che si rinnovano periodicamente in modo democratico. Non guasterebbe, comunque, una legge elettorale che faccia sentire gli elettori importanti, consentendo loro di scegliere i propri candidati.