di Adriana Matone
Era il 27 giugno del 1969 quando la polizia di New York irruppe nel bar chiamato “Stonewall Inn”, un bar gay in Christopher Street nel Greenwich Village, dando il via ad una serie di scontri con gli omosessuali: “Stonewall” (così è di solito definito in breve l’episodio) è generalmente considerato da un punto di vista simbolico il momento di nascita del movimento di liberazione gay moderno in tutto il mondo.
Proprio questo spirito liberatorio e combattivo ha animato il Roma Pride 2012.
Al grido di “Vogliamo tutto. La libertà di vivere e amare non può più aspettare”, un lungo corteo colorato ha sfilato per le strade della Capitale.
Composta da quindici carri, trenta sigle diverse, dall’Arcigay e il circolo Mario Mieli al Muccassassina, dal Gay Center al Queer Lab, e in mezzo anche la Cgil, Sel e i giovani dell’Idv, ma anche famiglie con bambini, eterosessuali, uomini e donne di tutte le forme e i colori, la grande parata si è apeta con lo striscione ‘Vogliamo tutto’, slogan del Pride di quest’anno, al ritmo di “I want it all” dei Queen.
Così la comunità LGTBQI ha espresso la rivendicazione dei propri diritti che vengono ancora negati come si evince dal documento politico dell’orgoglio omosessuale romano in cui si legge “attraverso la nostra lotta di liberazione che ripudia ogni forma di violenza, autoritarismo e totalitarismo e proclama come fondativi di una società democratica i valori dell’antifascismo, dell’antisessismo e dell’antirazzismo” e ancora “Vogliamo tutto, senza più mediazioni, senza più rinunce, senza più tentennamenti. Vogliamo tutto: questa è la richiesta che le persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e transgender, queer e intersessuali rivendicano con il Roma Pride 2012. Il Pride è il momento di massima espressione della nostra battaglia per il riconoscimento della parità, dignità e libertà di vivere e amare senza ingerenze religiose, moralistiche e ideologiche. Nel Pride sta la forza di una comunità che si trova unita nell’orgoglio per quello che si è, nelle rivendicazione di una piena uguaglianza, nella gioiosa visibilità individuale e collettiva, nell’allegria di un giorno di festa e condivisione. Vogliamo tutto e lo otterremo nello spirito di Stonewall”.
Eh sì, perché la concezione dell’omosessualità in Italia pare ancora decisamente arretrata e sballata rispetto all’America e al resto dell’Europa; qui da noi infatti gli omosessuali devono pagare le tasse, ma non possono sposarsi. Possono essere gay, ma non devono dichiararlo pubblicamente. Possono e devono votare, ma sono poco rappresentati.
Intanto però scendono in piazza e non smettono di far sentire la propria voce: circa 150 mila quest’anno, secondo gli organizzatori, i partecipanti alla parata che, naturalmente, ha attirato le attenzioni di qualche oppositore come gli attivisti di Militia Christi che hanno affisso dei manifesti con la foto di Giovanni Paolo II lungo il percorso del corteo, in via Cavour, per dire «no a Roma capitale dell’orgoglio omosessuale».I manifesti sono stati rimossi prima del passaggio dei manifestanti.
A Piazza della Repubblica, tra le prime iniziative della comunità gay c’è stato un affondo diretto al mondo del calcio: due ragazzi vestiti con la maglia azzurra della Nazionale e un pallone in mano posano baciandosi sulla fontana al centro della piazza.
Striscioni, slogan, urla, voci di protesta amplificate dal megafono, spesso e volentieri tanta provocazione: il Gay Pride non è solo una parata festosa e colorata ma un momento per ricordare a tutti, omosessuali e non, che non bisogna mai tacere e abbassare la testa quando si tratta dei propri diritti e della propria libertà.